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Siria

Il conflitto armato interno siriano, che ormai va avanti da più di quattro anni, vede sia le forze governative che i gruppi armati non statali compiere impunemente crimini di guerra su larga scala e gravi violazioni dei diritti umani. I civili nella città di Aleppo, sono sottoposti a terribili violazioni dei diritti umani pari a crimini di guerra e a crimini contro l’umanità. Molti abitanti sono costretti a vivere sottoterra per sfuggire agli incessanti bombardamenti aerei delle forze governative contro i quartieri occupati dall’opposizione.
Dall’inizio del conflitto sono state uccise circa 220.000 persone e 12.8 milioni di persone hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria. Circa 7.6 milioni di persone sono sfollate interne e ci sono circa 4 milioni di rifugiati siriani nel mondo.

Nell’aprile 2015 sono stati registrati non meno di 85 attacchi che hanno causato la morte di almeno 110 civili. Il governo, tuttavia, non ha ammesso neanche una vittima civile. Amnesty International denuncia inoltre il massiccio ricorso alla tortura, agli arresti arbitrari e ai rapimenti da parte sia delle forze governative che dei gruppi d’opposizione armata. Amnesty International rinnova a ciascuna delle parti in conflitto la richiesta di fermare i deliberati attacchi contro i civili, gli edifici e le infrastrutture civili e chiede di permettere l’ingresso degli aiuti umanitari ad Aleppo e in tutta la Siria.

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Messico

Il Messico si caratterizza per i continui casi di sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali e tortura in un contesto di crimine violento e di mancato accertamento delle responsabilità all’interno di polizia ed esercito. Secondo fonti ufficiali, nel 2014, oltre 22.000 persone sono state vittime di rapimenti, sparizioni forzate o se ne sono perse le tracce, compresi 43 studenti dello stato del Guerrero. I tentativi di ricerca delle persone scomparse si sono rivelati generalmente inefficaci. I resoconti di episodi di tortura e altri maltrattamenti sono frequenti ma alle denunce non seguono indagini adeguate. Difensori dei diritti umani e giornalisti vengono molestati, minacciati o uccisi.

I migranti irregolari in transito rischiano di essere vittime di uccisioni, rapimenti, estorsioni, violenze sessuali e tratta di esseri umani. Nonostante le leggi per combattere la violenza contro le donne, la violenza di genere è rimasta la prassi in molti stati. Amnesty International chiede al governo messicano di contrastare l’utilizzo delle sparizioni forzate, coinvolgendo le vittime e le associazioni per i diritti umani nello sviluppo e nell’attuazione di politiche ad hoc; di combattere l’uso della tortura a tutti i livelli e di garantire alle vittime accesso alla giustizia.

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Nigeria

Nel conflitto interno che caratterizza la Nigeria, l’esercito militare nigeriano e il gruppo armato Boko haram hanno commesso crimini di diritto internazionale e gravi violazioni dei diritti umani e abusi in un crescendo di violenza che ha segnato gli ultimi anni. In risposta agli attacchi di Boko haram nel nord-est del paese, dal 2009 le forze armate nigeriane hanno arrestato almeno 20.000 uomini, giovani e minorenni, alcuni dei quali di soli nove anni, spesso sulla base della segnalazione di un unico informatore segreto. La maggior parte di queste persone è stata arrestata nel corso di massicce operazioni di “controllo” o di rastrellamenti. Quasi nessuno degli arrestati è stato condotto di fronte a un giudice e tutti sono stati privati delle salvaguardie fondamentali contro l’omicidio, la tortura e i maltrattamenti. Da luglio 2014 in poi, Boko haram ha preso e occupato oltre 20 città negli stati di Adamawa, Borno e Yobe, prendendo di mira e uccidendo migliaia di civili. Durante gli attacchi alle città, Boko haram rapisce giovani donne e bambine costringendole a sposare uomini reclutati con la forza; saccheggia mercati, negozi e abitazioni private prendendo di mira scuole e altri edifici civili. Amnesty International chiede a Boko haram di porre fine alle uccisioni dei civili e al governo nigeriano di prendere tutte le misure di legge per garantire la loro protezione e ripristinare la sicurezza nel nord-est del paese.

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Eritrea

In Eritrea nell’ultimo anno sono state imposte gravi restrizioni alla libertà d’espressione e d’associazione e sono state condotte massicce e gravi violazioni dei diritti umani nei confronti di una popolazione controllata, ridotta al silenzio, isolata, sfruttata e ridotta in schiavitù. Migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici continuano a essere trattenuti in detenzione arbitraria, in condizioni estreme. Tortura e altri trattamenti crudeli, disumani o degradanti sono diffusi.

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I cittadini eritrei hanno continuato a fuggire in massa dal paese. Nei 22 anni d’indipendenza, l’Eritrea è diventata uno stato-prigione in cui ogni tentativo di opposizione viene stroncato e punito col carcere e con la tortura. La libertà di credo religioso è permessa solo alle confessioni autorizzate e non si estende ai cristiani evangelici e ai pentecostali, il servizio di leva è obbligatorio e a tempo potenzialmente indeterminato, traducendosi spesso in lavori forzati. I prigionieri politici sono diverse migliaia, lasciati a languire in carceri isolate, in celle sottoterra o in container in mezzo al deserto. Centinaia di famiglie non sanno dove siano detenuti i loro congiunti, né se siano ancora vivi. La morsa del potere si estende anche oltre-confine, attraverso la criminalizzazione dei rifugiati, l’infiltrazione di spie e informatori all’interno della diaspora e le rappresaglie nei confronti dei parenti rimasti in patria. Amnesty International chiede che la libertà d’espressione e associazione sia garantita e che ogni forma di tortura e maltrattamento sia interrotta e indagata.

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Somalia

Prosegue il conflitto armato tra le forze filogovernative, la Missione dell’Au in Somalia (African Mission to Somalia – Amisom) e il gruppo armato islamista al-Shabab nella parte meridionale e centrale della Somalia che insaguina il paese da ormai troppo tempo. Le forze filogovernative hanno protratto la loro offensiva per conquistare il controllo di alcune città di primaria importanza. Durante l’anno sono stati oltre 100.000 i civili uccisi, feriti o sfollati dal conflitto armato e dal dilagare della violenza.

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Tutte le parti in conflitto, compresa l’Amisom, si sono rese responsabili di gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. I gruppi armati hanno continuato a reclutare con la forza le persone, minori compresi, e a rapire, torturare e commettere uccisioni illegali; casi di stupri e altre forme di violenza sessuale sono stati frequenti. L’accesso delle agenzie umanitarie è rimasto limitato a causa del conflitto, dell’insicurezza e delle restrizioni imposte dalle parti belligeranti. Giornalisti e operatori dei mezzi d’informazione sono vittime continue di attacchi e vessazioni. I responsabili di gravi violazioni dei diritti umani hanno continuato a godere dell’impunità.

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Afghanistan

È in aumento l’insicurezza in tutto il paese in previsione del ritiro degli 86.000 soldati stranieri alla scadenza del mandato della forza internazionale di assistenza alla sicurezza (International Security Assistance Force – Isaf) della Nato. La Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UN Assistance Mission in Afghanistan – Unama) ha riferito che il numero di vittime tra i civili non coinvolti nelle ostilità in Afghanistan aveva raggiunto livelli mai visti.

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I talebani e altri gruppi insorti armati sono stati responsabili di oltre il 74% delle vittime civili, mentre alle forze filogovernative è stato attribuito il 9%. Un ulteriore 12% di decessi di civili si è verificato durante i combattimenti terrestri tra le forze del governo filo afgano e gli insorti talebani e non ha potuto essere attribuito ad alcun gruppo. Il restante 5% era dovuto al conflitto. Il mancato accertamento delle responsabilità nei casi in cui i civili sono stati uccisi o hanno comunque subito danni in operazioni illegali, ha lasciato molte vittime e i loro familiari senza accesso a giustizia e riparazione.
Anche la violenza sulle donne è molto diffusa, la Commissione indipendente afghana sui diritti umani ha riportato 4.154 casi di violenza contro le donne nella sola prima parte del 2014, con un incremento del 25% rispetto allo stesso periodo del 2013.

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Repubblica Popolare Cinese

Le autorità cinesi limitano fortemente il diritto alla libertà d’espressione. Attivisti e difensori dei diritti umani rischiano vessazioni e detenzioni arbitrarie. La tortura e altri maltrattamenti sono diffusi e molte persone non hanno accesso alla giustizia. Le minoranze etniche, tra cui tibetani, uiguri e mongoli, subiscono discriminazioni e una repressione sempre crescente in tema di sicurezza.

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Un numero mai visto di lavoratori è sceso in sciopero nell’ultimo anno per chiedere migliori salari e condizioni di lavoro. A novembre 2013, il terzo plenum del Comitato centrale del Partito comunista cinese ha redatto un progetto per approfondire le riforme economiche e sociali, aprendo la strada per modifiche delle politiche di pianificazione familiare e del sistema di registrazione delle famiglie. Nel 2013 è stata annunciata anche l’abolizione del sistema di rieducazione attraverso il lavoro. Il quarto plenum, che si è tenuto a ottobre 2014, si è focalizzato sullo stato di diritto. Il giro di vite sui difensori dei diritti umani è costante. Gli attivisti rischiano vessazioni, detenzioni arbitrarie, imprigionamento, tortura e altri maltrattamenti per la loro legittima attività in favore dei diritti umani.

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Brasile

Il Brasile è un paese caratterizzato da forti diseguaglianze economiche e sociali, in particolare in merito alla distribuzione del reddito e della proprietà terriera. Nonostante il piano di aiuti economici per le famiglie più bisognose portato avanti dal governo, in Brasile il 21,4% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. I poveri assoluti sono ancora 16 milioni.


Coloro che vivono nelle favelas, le baraccopoli brasiliane, sono oggi più di 12 milioni, ovvero il 6% della popolazione; nella maggior parte dei casi, essi non hanno accesso né a servizi né a strutture igienico-sanitarie dignitose. Negli ultimi anni è aumentato il livello di violenza sociale, esercitato in particolare dalle forze dell’ordine per reprimere manifestazioni di dissenso politico. Nel 2014, in occasione dei Mondiali di Calcio, ha creato scalpore l’uso della forza contro coloro che domandavano miglioramenti del sistema sanitario ed educativo e rispetto dei diritti dei lavoratori. Drammatica è, inoltre, la situazione delle popolazioni indigene, come le comunità guarani-kaiowà e terena, confinate in spazi limitati all’interno dei quali vivono in gravi condizioni di precarietà abitativa e sono colpite da denutrizione e da mancanza di acqua sicura.

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Costa d’Avorio

Dal 2002 al 2011 il Paese ha vissuto un lungo periodo di grave instabilità e guerra civile. A causa del prolungato conflitto, il rispetto dei diritti umani, il tessuto sociale e le condizioni economiche e infrastrutturali si sono considerevolmente deteriorati. L’indice di sviluppo umano colloca il Paese al 171° posto al mondo, su 187 nazioni.

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Tra le eredità più gravose del lungo periodo di instabilità, vi è il saccheggio e spesso la distruzione delle strutture sanitarie e scolastiche, che di fatto per lunghi periodi – molte sino ad oggi – sono divenute inaccessibili alla maggior parte della popolazione. Ne deriva in primo luogo un livello di analfabetismo allarmante, al punto che un ivoriano su due non sa leggere e scrivere, con valori particolarmente elevati per donne e bambine. Ciò lascia largo margine alla piaga del lavoro minorile (oltre il 30%), in stretta correlazione al commercio del cacao di cui il Paese è il maggiore produttore mondiale. I coltivatori – migliaia di questi sono per l’appunto bambini – non vengono pagati o ricevono compensi irrisori, cosicché l’economia rurale nei villaggi rialimenta disoccupazione, povertà e tensioni interne per il controllo delle risorse a disposizione.
Sul piano della salute, le cose non vanno meglio (meno del 2% del Pil è investito in spese sanitarie) e la Costa d’Avorio si classifica tra i dieci Paesi meno sicuri al mondo per la salute di madri e bambini. L’arretratezza, l’esclusione sociale e la mancata affermazione dei diritti socioeconomici essenziali fanno sì che l’accesso ai servizi sanitari sia garantito solo al 22% della popolazione.

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Uganda

Tra il 2000 e il 2014 (nonostante la grave eredità socio-economica determinata dalla lunga instabilità interna, protrattasi sino al 2009), il PIL dell’Uganda ha continuato a crescere. Per contro, di pari passo è aumentata la disuguaglianza tra diverse fasce di popolazione e tra regioni del Paese a diverso livello di sviluppo. Vasti gruppi della popolazione ugandese soffrono ancora oggi la negazione dei diritti socioeconomici e vivono nell’arretratezza.


Attualmente, l’Uganda ha un indice di sviluppo umano di 0,456 (posizione n. 161) e 4 ugandesi su 10 vivono al di sotto della soglia di povertà. Nelle aree rurali, dove risiede la maggioranza della popolazione e dove si ripercuotono in maniera eclatante gli effetti negativi del cambiamento climatico, la povertà è particolarmente radicata. Merita particolare attenzione il caso della Karamoja, sub-regione infelicemente nota per essere una delle aree più arretrate del pianeta. Qui, secondo i dati, solo il 6,8% della popolazione al di sotto dei 15 anni ha completato la scuola primaria e si riscontrano a tutti i livelli importanti disparità tra l’accesso all’istruzione per i maschi e per le femmine. La malnutrizione acuta (al tasso del 13 ,4%) supera largamente la soglia di allarme e solo un abitante su tre ha accesso all’acqua potabile.

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